domenica 22 gennaio 2017

macabro

/mà-ca-bro/ (in passato macàbro)
agg. e s.m. inv.
Funereo, lugubre, ispirato o riferito alla morte, talvolta con espressione di compiacimento.


Il termine compare per la prima volta nel componimento Le respit de la mort (La dilazione della morte) del poeta parigino Jean Le Févre in cui l'autore racconta di essere scampato per un pelo alla morte in seguito a una grave malattia contratta il 9 ottobre 1376: «Je fis de Macabré la Dance / Qui toutes gens maine a sa tresche / Et a la fosse les adresche / Qui es leur derraine maison» (Mi sono unito alla danza [di] Macabre / Che trascina tutti nel suo girotondo / E li conduce alla tomba / Loro ultima dimora).

Siamo in pieno autunno del medioevo, la peste nera ha mietuto circa un terzo della popolazione europea nel periodo di maggior virulenza (1347-1352) riproponendosi poi endemicamente a ondate cicliche, a partire dal XIII secolo il fantastico baltrušaitisiano irrompe prepotentemente nell'immaginario collettivo (letterario e pittorico) alterando la percezione della morte, che da una forma idealizzata e rasserenante vira verso una rappresentazione materiale, corporea, piena di scheletri parlanti  (L'incontro dei tre vivi e dei tre morti) e danzanti (le Danze macabre).


Ma chi era questo Macabre con cui Le Févre fece un giro di ronda? L'origine è controversa. Secondo alcuni, potrebbe coincidere col nome del pittore che affrescò nel 1424, lungo una delle mura del vecchio Cimitero degli Innocenti a Parigi, la piú antica raffigurazione della danza a noi nota, o addirittura il nome del cappellano della chiesa omonima. Altri intravvedono un'alterazione da machabé (Maccabeo) in correlazione ad un rituale ecclesiastico che si inscenava il 10 luglio in memoria dei defunti (Machabaeorum chorea = danza dei Maccabei, sette fratelli ebrei vissuti nel II sec. a. C. commemorati nel martirologio romano) (il 10 luglio, a dire il vero, si celebravano i santi Sette frati figli di Felicita, le cui leggendarie vicende, tuttavia, sembrano costruite sulla falsariga dei loro piú noti antecessori). Una terza ipotesi - sempre di ambito deonomastico - trova un collegamento con san Macario, il monaco che secondo la tradizione (cosí riferita da Vasari) nell'affresco dedicato al Trionfo della morte presente al Camposanto di Pisa (1336-1341) indica a tre cavalieri la presenza di tre cadaveri, uno dei quali ridotto ormai a scheletro.

Arriverà poi la temperie romantica (di cui i giorni nostri sono postumo cascame) a rinverdire i lati macabri del gotico, con Goethe, Liszt, Baudelaire, PoeSaint-Saëns, giú giú fino a Michael Jackson, Stephen KingTim BurtonDamien Hirst &co.


lunedì 2 gennaio 2017

laconico

/la-cò-ni-co/
agg.
Relativo alla Lacònia (o piú propriamente Lacedemonia, come era conosciuta nell'antichità), nomo greco nel Peloponneso sudorientale con capitale Sparta (avete presente il film 300?).
Plutarco (ca. 46-125), cittadino ateniese e romano, negli Apophthégmata Lakoniká (Apoftegmi dei Laconi) celebra, quasi con intento nostalgico, i valori della civiltà spartana (quando essa era in auge, fino al V sec. a.C.), tra i quali si evidenziano anche l'essenzialità (in spregio all'orpello superfluo) e lo stile asciutto (in spregio alla prolissità retorica). Fin dall'antichità, dunque, l'aggettivo acquista il significato di conciso, stringato ed Erasmo accoglie il termine nei suoi celebri Adagia (Proverbi), che tanto influenzarono la cultura europea del XVI secolo, fin dall'edizione veneziana del 1508, al nr 958 della chilias secunda. Ecco l'adagio tradotto dal latino in italiano:


«Laconismo. Cosí si denomina la concisione (breviloquentiam), per cosí dire proverbialmente, o perché gli Spartani eccelsero nei fatti piú che nelle parole o perché fra essi prevaleva soprattutto la forma aforistica, la cui particolare grazia consisteva nel comprendere molte proposizioni in pochissime parole. Come ad esempio: «forse», in risposta ad un prolisso discorso di un messaggero; e un «no» che occupava da sola un’intera lettera. M. Tullio [Cicerone] talvolta ironizzava sulla laconicità di Bruto e in greco «parlare laconico» significa esprimersi sinteticamente, con poche parole».


Lo spunto iniziale sviluppato poi nella riflessione di Erasmo proviene verosimilmente dalla lettura di un passo delle Annotationes centum (Filippo Beroaldo, 1496) e si disseminò successivamente in molteplici manuali di retorica andando ad aggiungere un quarto stile, quello laconico, ai tre classici stabiliti da Quintiliano nella sua Institutio oratoria (I sec. d.C.): l'attico, il rodio e l'asiano (altri eponimi in cui si disposero nello spettro del dicibile le caratteristiche di asciuttezza o verbosità elocutoria). Divenne da allora proverbiale contrapporre i due nuovi estremi, quello laconico a quello asiatico (cfr. ad esempio una lettera di Giacomo Leopardi alla sorella Paolina «Ma è omai tempo di finirla poichè mi avvedo che avendo fatto l'elogio dello stile laconico sto per cadere nei difetti dello stile Asiatico» 28/1/1812).